Più in alto di Roth: perché Saul Bellow è uno scrittore più grande
C’è una vetta della letteratura americana che i lettori italiani guardano da lontano. E, spesso, nemmeno la vedono
In Italia, tra chi ama la letteratura americana, Philip Roth è da anni un nome di culto. Ed è facile capire perché: i suoi romanzi sanno essere irresistibili, nevrotici, febbrili, scritti con una prosa che pulsa d’intelligenza e ironia. Roth ci ha dato Zuckerman, “Lo Svedese”, Portnoy, Sabbath e altri indimenticabili antieroi che si dibattono nel teatro tragicomico della modernità, e ha saputo raccontare l’identità ebraico-americana come una grande sinfonia dissonante.
Eppure, c’è un’altra voce, più profonda, più ariosa, più metafisica, che da tempo sembra ignorata nel nostro paese: quella di Saul Bellow. E non è un’iperbole dire che Bellow, rispetto a Roth, è stato uno scrittore più grande. Lo è stato non per prolificità - anche se la sua opera è imponente - ma per portata spirituale e filosofica, ampiezza intellettuale e audacia stilistica. Se Roth è stato il maestro della corrosione, Bellow è stato il poeta dell’elevazione. Lo scrittore del pensiero in azione.
Saul Bellow è stato il primo scrittore americano a vincere, oltre al Nobel per la Letteratura (1976), anche tre National Book Award e il Pulitzer. Eppure, da noi, il suo nome viene spesso pronunciato con una certa perplessità, come quello di un autore che "andrebbe riscoperto", una formula elegante per dire che pochi l’hanno letto davvero. Forse perché Bellow è meno immediato, meno pop. Forse perché il suo stile, denso e pensante, chiede di essere ascoltato come una sinfonia, non semplicemente consumato.
Ma chi affronta le pagine di Le avventure di Augie March, Herzog, Il pianeta di Mr. Sammler o Il dono di Humboldt, capisce subito che qui si gioca su un livello altissimo. Bellow non ci dà solo personaggi: ci dà coscienze, e dentro queste coscienze ribolle il mondo intero, con tutta la sua confusione, il suo dolore e, sì, anche la sua bellezza.
Dove Roth si ferma, Bellow comincia. Roth ha raccontato il corpo, il desiderio, la colpa. Ha sezionato l’America come un entomologo geniale. Ma anche nei suoi romanzi più ambiziosi, come Pastorale americana, il cuore del discorso resta sociale, identitario, storico. È una grande letteratura della crisi. Bellow, invece, ha voluto dire cosa significa essere un’anima in un corpo nel XX secolo. Che cosa resta dell’essere umano quando le ideologie cadono, quando la religione si affievolisce, quando la modernità fagocita ogni trascendenza. Le sue pagine, pur intrise di ironia, di ebraicità, di dialoghi brillanti, non temono mai la domanda metafisica. Non temono il sublime.
Prendete Herzog: è il monologo interiore di un uomo smarrito, sì, ma anche un inno alla possibilità di pensare, di amare, di scrivere lettere (mai spedite) come forma di salvezza. O Il dono di Humboldt, che si apre come un’elegia per un poeta perduto e diventa una riflessione esilarante e struggente sulla cultura americana, sul talento, sul fallimento. I suoi protagonisti, intellettuali, filosofi da marciapiede, psicoanalisti svitati, sembrano usciti da una Spoon River urbana, ma ciascuno porta in sé una scintilla di infinito.
Bellow ha avuto il coraggio di fare della cultura - filosofia, letteratura, scienza - materia viva del romanzo. In lui, l’intelligenza non è mai ornamento, è carne e sangue. I suoi personaggi parlano come se avessero letto Spinoza e Dostoevskij, ma senza mai perdere il contatto con l’umano, con il ridicolo, con la tenerezza.
A differenza di Roth, che scriveva per esorcizzare i suoi demoni (e talvolta per rincorrerli), Bellow scriveva per comprendere. Non per giustificare, non per accusare, ma per dare forma al caos dell’esistenza con un’armonia inedita. La sua prosa può essere caotica, affollata, digressiva, ma è proprio lì che risplende. Nessuno come lui ha saputo unire la lucidità del saggio alla vertigine del romanzo.
Forse il motivo per cui Bellow è meno amato in Italia ha a che fare con la difficoltà di traduzione del suo stile. La sua lingua è un tessuto ricchissimo di inflessioni orali, pensiero filosofico e humour yiddish, che in italiano perde spesso mordente o musicalità. Tradurre Roth è già un’impresa, ma tradurre Bellow è come tentare di riportare il jazz in notazione classica: qualcosa si perde, quasi inevitabilmente.
E tuttavia, è un’impresa che andrebbe rilanciata. Rileggere oggi Bellow significa rimettere al centro la letteratura come indagine dell’umano, senza moralismi, senza compiacimenti. Significa riconoscere che, anche in un’epoca dominata dalla superficie, c’è stato chi ha osato cercare l’abisso. Con grazia. Con umorismo. Con compassione.
Conclusione? Roth ha dato voce alla rabbia del nostro tempo. Bellow ha cercato, nonostante tutto, di salvarne l’anima. E questo, forse, è il gesto più grande che la letteratura possa compiere.
Mi hai fatto venire voglia di leggerlo